Revenge porn: come difendersi da un ex che pubblica foto osè
“In un caso che ho recentemente concluso,” – spiega l’avv. Sorgato – “il responsabile della pubblicazione di foto osè della mia cliente – odiosa forma di diffamazione oggi nota come revenge porn – è stato condannato ad un anno e dieci mesi di reclusione, senza condizionale, con l’obbligo di rifondere alla vittima 5mila euro. Quanto accaduto è la prova concreta dell’efficienza di un meccanismo articolato, che permette alle vittime di tali degradanti soprusi non solo di interrompere l’attività diffamante del loro carnefice, ma di essere risarcite per quanto subito. Purtroppo anche rispetto a questo tema si ignorano ancora molti aspetti, che possono determinare la “passività” di chi subisce a vantaggio di chi pensa di potersi vendicare in questo modo assolutamente subdolo. In termini giuridici, caricare in internet un file contenente un’immagine attinente la vita privata di qualcuno è un reato che prevede gravi sanzioni. La V sezione penale della Cassazione, specializzata in questa materia, risponde invariabilmente che condividere un’immagine di terzi, senza autorizzazione della persona ritratta, con altri utenti della rete implica diffonderla ad un numero imprecisato di destinatari, potenzialmente a tutti gli abitanti del pianeta. Se l’immagine stessa, o i contenuti che la accompagnano (commenti, didascalie) sono quindi offensivi (“tali da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione, al decoro della persona medesima”), la pubblicazione in rete integra gli estremi del reato di cui all’art. 595 c.p. – ossia diffamazione (sentenza 12 ottobre 2004, n. 42643 e più recentemente sentenza 19 giugno 2008, n. 30664 e 5 novembre 2014, n. 5695). Non solo: le potenzialità diffusive del web sono tali da determinare la maggior pubblicità dell’offesa, il che giustifica un più severo trattamento sanzionatorio (sentenza 16 gennaio 2015 n. 6785). Non è necessario provare che chi ha immesso in rete certi contenuti volesse ingiuriare: è sufficiente che consapevolmente abbia fatto uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive ( sentenza 4 novembre 2014, n. 7715). In questa fattispecie rientra a pieno titolo la così detta revenge porn, ossia la pubblicazione (anche tramite social network) di immagini ritraenti un soggetto in atti sessuali, carpite eventualmente anche con il suo consenso ma diffuse senza la sua autorizzazione, magari accompagnate anche da commenti volgari . È un comportamento adottato da molti stalker, che oltre a perseguitare le loro vittime, le infastidiscono e minacciano diffondendo immagini che le ritraggono realmente (mentre scattate quando la relazione era in essere e la donna consenziente) oppure che appartengono ad altre persone, ma che attribuiscono volontà e intenzioni false alla molestata, per esempio presentandola come prostituta (in tal caso appare il numero di telefono).
Il rimedio è querelare immediatamente, eventualmente contro ignoti: ci penserà la Polizia Postale ad identificare il responsabile”.